Vicenza, sabato 16 dicembre 1424 un condannato a morte sarà decapitato in Campo Marzo.
Vicenza, sabato 16 dicembre 1424 un condannato a morte sarà decapitato in Campo Marzo.
Il notaio è seduto ad un banchetto e si appresta a redigere un testamento[1] . Con il suo intervento e con la sua firma rende valido dinanzi a tutti quello che scrive. E’ abituato a segnare e scandire il tempo in ogni frazione, fa parte del suo mestiere e lo fa anche oggi, venerdì 15 dicembre 1424. Deve indicare anche il luogo -lo richiede il diritto- le carceri del Comune di Vicenza. Pietro Paolo Cartolari, il notaio, conosce bene quei locali angusti sistemati sotto il palazzo cittadino, quello che allora era il palatium vetus, che crolli e successivi interventi ingloberanno tra il 1449 e il 1459 nel palatium Comunis andando così a formare un unico manufatto, l’attuale Basilica.
Le autorità comunali si rivolgono a lui per scrivere i testamenti dei condannati. Ne aveva compilato uno nel 1422 e un anno e mezzo prima aveva scritto anche quello di Domenica [2], la donna bruciata viva in Campo Marzo in un giorno di sabato del gennaio 1423. Oggi, così come stabilito per gli atti di ultima volontà, sono stati convocati i sette testimoni. Tre sono i custodi delle carceri, Giovanni Donato da Treviso, presente pure al testamento di Domenica, Pietro del fu Franco da Pavia e Andrea del fu Giovanni da Pisa, entrambi cerdones, conciatori/calzolai. E’ presente un tale Facio da Valdagno che gira la città per elemosinare pane e vino da distribuire ai carcerati. C’è lo straccivendolo Vincenzo, soprannominato Carestia, che abita nel borgo di San Felice. Partecipano anche Antonio di Francesco nipote del prete di Brendola e Giovanni fu Fiore da Brescia, anch’egli cerdo, priore del vicino ospedale di Sant’Antonio, un ospizio per malati sorto alla metà del Trecento nella vicina piazza della Cattedrale. Magister lo appella il notaio attribuendogli una qualifica diversa da quella dei semplici cerdones, operai della lavorazione dei pellami e dei cuoi che all’epoca era uno dei più importanti settori produttivi della città e del territorio[3].
Oltre a questi personaggi dinanzi al notaio c’è un uomo che sta per esprimere le sue volontà. Sono le ultime perché ser Litolfo -è questo il suo nome- è stato condannato ad amputandum caput.
Il notaio sa, conosce il delitto di cui si è macchiato. Noi, invece, ignoriamo il reato. Non si conservano le sentenze [4] che furono pronunciate in quel periodo. Dal 1404 Vicenza si era data alla Repubblica di Venezia. Patti e accordi scaturiti nel 1404 e nel 1406 le avevano lasciato ampi margini di manovra nell’amministrazione della giustizia [5]. L’apparato burocratico era sorretto da notai cittadini e il tribunale penale, la corte pretoria, era formato da rappresentanti inviati dalla Dominante, il Rettore e i giudici assessori, e da un’antica magistratura locale, il consolato. Le norme vigenti erano ancora quelle degli Statuti del 1339 [6] ma si stava lavorando alla loro revisione attuata solo un anno dopo, nel 1425 [7].
Ego Petrus Paulus condam magistri Nicolai cartolarii notarius publicus et civis Vincentie predictis omnibus et singulis presens fui et predicta a suprascripto testatore rogatus publice scripsi et dictus Litolfus dictus Ravanus testator decapitatus fuit in Camparcio per magistrum iustitie die sabati XVI mensis decembris 1424
Per ipotizzare un reato proviamo, allora, a scorrere le rubriche delle leggi passate e di quelle in via di riesame per cercare i crimini puniti con la morte [8]. Nel 1339 era prevista -con decapitazione- per le “vendette di sangue”, faide familiari, che il Comune doveva eseguire. Impiccagione e decapitazione colpivano gli assassini e gli omicidi feroci. Si sceglieva la sospensione alla forca con il capo in giù e i piedi in alto per i saccheggiatori, per i ladri seriali e di pessima fama e per il ladro comune catturato per la terza volta dopo aver perso una mano nel primo arresto e un occhio nel secondo.
Per i reati di violenza, rapimento e stupro commessi contro le donne, vergini, vedove o sposate, oneste e di buona reputazione veniva ordinata la pena capitale. In caso di adulterio l’uomo se la cavava con la sanzione pecuniaria, la donna invece… Se una donna sposata, volontariamente, commetteva adulterio perdeva la dote che passava al marito e veniva consegnata al fuoco ita quod penitus moriatur. Le parole utilizzate nel codice del 1339 vengono trasferite esattamente nel titolo decimo nono del Libro III degli Statuti del 1425. E proprio in questa rubrica, la diciannovesima, De violentiis, raptibus et carnalibus cognitionibus …, la casistica si amplia e la tipologia della pena si diversifica a seconda della onorabilità e del consenso femminili e della religione del colpevole. L’unione carnale con una donna non onesta veniva considerata come adulterio e la pena era decisa a giudizio del Rettore e della sua corte. Il fuoco colpiva sia l’ebreo che si univa a una donna cristiana sia la donna sposata che consapevolmente si fosse congiunta con lui. Se la donna non era maritata o era una prostituta gli accusati venivano semplicemente fustigati. Ed era sempre il fuoco a dannare il maschio o la femmina che si fossero macchiati di reati contro natura.
Ma torniamo alla mattina di venerdì 15 dicembre 1424. Il notaio ascolta le parole di ser Litolfo figlio di Guidotto e le riporta sul documento. Il reo ha un soprannome, Ravanus, ed è originario di Schiavon nel vicentino. Da diversi anni, però, vive a Loria nel trevigiano, una comunità della podesteria di Castelfranco che già dal 1339 era stata assorbita nel dominio veneziano, e che confinava con il Bassanese e con l’Asolano. Il condannato può scegliere il luogo della sepoltura e lo individua a Vicenza nella chiesetta della Misericordia, quella annessa al piccolo ospizio che si trovava nel borgo di San Felice, lì dove ora sorge, in forme completamente diverse, l’oratorio di San Bovo. Per la salvezza dell’anima dispone che alla chiesa di San Bartolomeo di Loria vadano una casa e l’area che la circonda ubicate proprio in quella località. Il suo pensiero e le sue attenzioni sono tutti rivolti alla nipote Giustina, figlia del figlio Berto, morto da diversi anni, e moglie di magister Marco da Urbino che abita a Vicenza nella sindicaria del Duomo, una delle circoscrizioni dell’omonimo quartiere insieme a quelle di San Francesco e Carpagnon. A lei assegna un brondum, un recipiente della capacità di circa nove litri e due crediti, uno di 2 lire e uno di 4, che deve ancora riscuotere rispettivamente da Nicola Schinella e da Alberto da Polvaro che al momentovive proprio nella casa di Litolfo. C’è ancora un punto da definire. Il condannato, dopo la morte di Berto, il papà di Giustina, aveva donato al nipote Spinello, figlio del fratello Gerardo, un paio di buoi, una capra con il suo capretto e il frumento, la spelta e la segale che erano stati raccolti in alcuni campi di sua proprietà. Ma, nonostante questa generosità, Spinello si era comportato male con lo zio e la cosa era ben nota a tutti gli abitanti di Loria. E così ora Litolfo si vede costretto a sollecitare Giustina a richiedere l’annullamento di quella donazione e ad esigere la restituzione dei beni. Nel resto del patrimonio Giustina è nominata erede universale.
Poiché non c’è altro da aggiungere il notaio può completare l’atto con le formule di rito…. “e questo vuole, ordina e comanda che sia il suo ultimo testamento…” etcetera etcetera.
Pietro Paolo Cartolari non appone la firma. Lo farà il giorno successivo convalidando in questo modo con la sua sottoscrizione l’atto e l’avvenuta esecuzione di Litolfo detto Ravanus per mano del boia in Campo Marzo nel giorno di sabato 16 dicembre 1424.
a cura di Maria Luigia De Gregorio
archivista di Stato e paleografa, già Direttore dell’Archivio di Stato di Vicenza
[1] Il testamento di Litolfo è in ASVi, Ufficio del registro, Testamenti in bombacina, 1424 vol 2. G. MANTESE Memorie storiche della chiesa vicentina, vol III, 2 nelle note alle pp. 489-490 scrivendo delle carceri accenna a testamenti di condannati a morte ma non menziona ne’ questo ne’ quello di Domenica del 1423.
[2] Ho incontrato Domenica un po’ di tempo fa e da allora l’ho raccontata diverse volte nelle visite in Archivio. A Domenica, Maria Teresa Dirani Mistrorigo ha dedicato un articolo su Il Giornale di Vicenza nel 1984. Antonio Di Lorenzo ha inserito Domenica nel libro Uniche! Le grandi donne vicentine della Storia, Marostica 2022.
[3] E. DEMO, Le manifatture tra Medioevo ed Età moderna in L’industria Vicentina dal Medioevo a oggi, Vicenza 2004, pp. 21-126. Ad inizio Quattrocento erano confluiti in una unica corporazione i calzolai, i conciatori e i pellattieri o pellicciai, e il termine cerdo stava ad indicare sia il “calzolaio” sia l’operaio addetto alla concia e alla lavorazione dei pellami.
[4] La Biblioteca Bertoliana di Vicenza conserva all’interno dell’archivio del Comune detto di Torre i registri delle sentenze a partire dall’anno 1452 (A. T. bb 1108 e segg.). Sempre in A.T. nella b.1102 compaiono le registrazioni dei bandi comminati e dei “banditi” che si presentarono dinanzi al giudice del Maleficio dall’anno 1388 fino al 1421, 1422, 1426 e 1431.
[5] C. POVOLO, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (secoli XV. XVIII) I, a cura di G. COZZI Roma 1980, pp. 153-258. G. M. VARANINI, Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992. J. S. GRUBB, Comune privilegiato e Comune dei privilegiati in Storia di Vicenza, III/1 Vicenza 1989, pp. 45-65.
[6] BCBVi, Ms 568.
[7] ASVi, Archivio Piovene Orgiano, Jus municipale vicentinum cum additione partium ac decretorum serenissimi Dominii, Vicenza 1706.
[8] Senza alcuna pretesa di esaustività per la complessità della procedura e per la varietà dei reati stabiliti dalle norme.